DISERZIONE

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Autore: Giuditta Naselli

I processi di guerra esaminati nel Fondo del Tribunale Militare di Venezia dimostrano che la diserzione non è solo il reato più diffuso, ma la principale fonte di preoccupazione per le Autorità militari.

Fogli matricolari, verbali di arresto, rapporti disciplinari, interrogatori e testimonianze raccontano le sofferenze e le defezioni di soldati che, dopo aver combattuto al fronte e dopo anni di licenze rifiutate, decidono arbitrariamente di tornare a casa per assistere la famiglia malata o in condizioni economiche disperate.

Le fonti documentarie testimoniano diserzioni che si rivelano come episodi di breve durata, motivati da esigenze personali e familiari. Come il caso di Gerolamo Chinaglia, nato il 18 luglio del 1887 a Cauda, soldato nel Reggimento Artiglieria da Montagna, accusato, con sentenza del 7 luglio 1915 e poi assolto, dei reati di diserzione dal corpo e di alienazioni di effetti militari, che, durante l’interrogatorio si difende affermando di essere stato costretto a fuggire perché vittima delle angherie da parte del sergente della sua compagnia. Oppure come il caso di Emanuele Barboni, nato il 18 luglio del 1890 a Copparo (Ferrara), soldato di I° Categoria del Distretto militare di Ferrara, che si difende dall’imputazione di diserzione affermando la necessità di abbandonare l’accampamento per affrettare le pubblicazioni di matrimonio con la compagna in modo da procurare a lei e al figlio, altrimenti considerato illegittimo, il sussidiario amministrativo necessario alla sopravvivenza.

All’inizio della guerra la “diserzione in presenza del nemico” è regolamentata seguendo le disposizioni dei codici militari che puniscono il reato con la fucilazione, mentre la “diserzione interna” con pene variabili dai tre ai quindici anni, ma, dal 1917, gli interventi legislativi si inaspriscono fino ad arrivare a processi lampo o presumibilmente inesistenti, con fucilazioni sommarie.

La maggior parte dei soldati accusati ha, alle spalle, una buona condotta e la fuga si rivela come un episodio di breve durata che termina con il soldato che si costituisce per timore, più che dell’intervento disciplinare, della perdita dei sussidi per la famiglia rimasta a casa. L’occasione per fuggire, in genere, si presenta in ospedale, durante la convalescenza, o alla stazione, durante le marce di avvicinamento.

Alla fine della guerra la sfera di applicazione della pena di morte per diserzione è ulteriormente estesa. Mentre nei primi mesi del 1917 le sentenze capitali sono obbligatorie solo per coloro considerati recidivi e sorpresi a disertare per la terza volta, dal mese di aprile dello stesso anno, a prescindere dal fatto che il Codice penale militare preveda la pena di morte solo dopo cinque giorni di assenza ingiustificata, la sentenza capitale è stabilita per ogni soldato in ritardo di tre giorni dal rientro della licenza. Si arriva, così, all’apice della crudeltà nel mese di agosto quando vengono tacciati come disertori e costretti alla pena capitale, tutti coloro in ritardo di ventiquattro ore, mentre alle rispettive famiglie è negata la pensione di guerra.

Alcuni documenti processuali rivelano contraddizioni nel condannare i disertori in senso stretto e i disertori “per mancanza alla chiamata”, spesso causata dall’analfabetismo del renitente o dall’emigrazione in paesi lontani. Raccogliendo le notizie, gli organi dell’amministrazione militare inciampano in una certa confusione tra disertori tout court (coloro che hanno abbandonato il reparto dopo esserne entrati a far parte) e disertori per mancanza alla chiamata (distinti a loro volta in renitenti alla leva e in militari che dopo, aver compiuto servizio di leva prima della guerra, non hanno poi risposto al successivo richiamo). Ulteriori inesattezze si moltiplicano al momento della determinazione della residenza del renitente o del disertore, considerando che tanta parte della popolazione rurale è analfabeta o emigrata in paesi lontani. Dalla documentazione, infatti, risultano diversi i casi di uomini accusati di diserzione, nonostante questi abbiano lasciato l’Italia già da tempo.

La Grande Guerra rappresenta non solo un nuovo modo di combattere, in un’epoca segnata dall’avvento della modernità, ma anche una nuova percezione ed espressione della vita militare, segnata spesso da esperienze drammatiche in cui la solidale fraternità con i soldati è spesso sostituita da fenomeni di isolamento e solitudine estremizzati in episodi di autolesionismo, disobbedienza e abbandono.

Più che nella produzione di dati e  casistiche, i documenti analizzati hanno dato l’occasione di leggere e conoscere la vita di uomini, protagonisti di una guerra in cui il sentimento patriottico è destinato a capitolare a favore di desideri e bisogni propri della sfera familiare.

DIDASCALIE

3A_1_Fascicolo processuale Barboni e Campanini, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123.

3A_2_Foglio matricolare Barboni, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123.

3A_3_Mandato di cattura Barboni, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123.

3A_4_Richiesta di certificato Barboni, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123.

3A_5_Sentenza d’accusa, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123Certificato di buona condotta, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 123.

3A_6_Sentenza in nome del Re d’Italia, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 122.

3A_7_Interrogatorio di Chinaglia, in ASBO, Tribunale militare di guerra di Venezia, Processi 1915, busta n. 762, fasc. n. 122.

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