Anton Giulio Bragaglia

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  Regista e scrittore (Frosinone 1890 - Roma 1960)

Anton Giulio Bragaglia

Già dal 1906 inizia a lavorare come aiuto regista alla Cines, la nota casa cinematografica romana in cui il padre era direttore generale, che gli permise di fare una rilevante esperienza tecnica ed artistica conducendolo sulla via della sperimentazione di tecniche fotografiche, cinefotografiche e fotodinamiche per le quali si avvalse del contributo economico del movimento futurista. Diresse e collaborò con riviste d'arte e di teatro, in cui fu più attivo più che nel cinema. Nel 1919 fondò a Roma la Casa d'Arte Bragaglia in cui ospitò conferenze ed esposizioni e che inaugura con una personale di Giacomo Balla.

Nello stesso anno cura la sua prima regia teatrale al Teatro Argentina di Roma, mettendo in scena Per fare l'alba di Rosso di San Secondo con la Compagnia del Teatro Mediterraneo diretta da Luigi Pirandello, Rosso di San Secondo e Nino Martoglio. 

Nel 1922 aprì il Teatro Sperimentale degli Indipendenti (che diresse fino al 1936) dove fece rappresentare di preferenza lavori d'avanguardia e, negli stessi anni fondò una propria compagnia teatrale "Compagnia Spettacoli Bragaglia" che divenne un punto di riferimento proprio per le avanguardie italiane, mettendo in scena il meglio della drammaturgia internazionale.

Dal 1937 al 1943 diresse inoltre la Fondazione del Teatro delle Arti di primaria importanza per la comprensione della storia dello spettacolo nell'Italia degli anni del regime fascista. La sua ultima regia è del 1960, nella stagione lirica del Teatro dell'Opera di Roma.

La poetica teatrale di Anton Giulio Bragaglia

Bragaglia fu senza dubbio un artista poliedrico ed un intellettuale dai larghissimi interessi, considerato il propugnatore di un rinnovamento teatrale; uomo inquieto ed incline agli estremismi, che non incurante degli insegnamenti della tradizione considerati la base da cui partire. Sosterrà l'importanza dell'improvvisazione,  ritenuta l'opposizione alla disciplinata e regolata arte del recitare e strenuamente difesa dal Manifesto del Teatro Futurista del 1915, a scapito  del “genere teatrale” visto come accademica declamazione. 

Nei molti anni passati in teatro si concentrò moltissimo sulla meccanizzazione della scena  affinchè questa potesse avvicinarsi il più possibile alla vita attiva contemporanea, quindi l'avvicendarsi dei luoghi, il movimento delle luci colorate, i suoni e tutto ciò che potesse portare un'efficacia reale all'azione scenica. Questa moltiplicazione dell'azione e dei luoghi "permette di cambiare all'infinito l'ambiente nell'azione". Questi ingegnosi ritrovati precorrono le ardite soluzioni scenotecniche, costumistiche e luministiche italiane degli anni '60. Tra questi vale la pena ricordare la "scena versile" consistente in una scena a tre facce che voltandosi istantaneamente produce il cambiamento da bosco a colonnato e a tendaggi, la "messinscena fotoelettrica" ottenuta mediante un sottile schermo perlaceo, dietro al quale è disposta una quantità di lampadine di tre o più colori che proiettano un vago profilo delle cose - paesaggi o emblemi - durante le rappresentazioni, la "lampada dell'oraluce" consistente in un parco di lampade colorate nei tre colori fondamentali che, girando più o meno velocemente in un sottile filtro di garza, danno luce più o meno fredda o calda secondo l'ora del giorno e la "lampada dell'oraluce" consistente in un parco di lampade colorate nei tre colori fondamentali che, girando più o meno velocemente in un sottile filtro di garza, danno luce più o meno fredda o calda secondo l'ora del giorno. 

Bragaglia si identificava nel “régisseur”, ossia la conciliazione in un'unica personalità artistica dei tre maestri di scena,il “direttore”, colui che dirige la rappresentazione, il “corago”, che indirizza, guida la recitazione e l'“apparatore”, responsabile di tutto ciò che serve per l'allestimento, invenzioni, adattamenti, maestro degli attori e guida nella messinscena.

Nel 1929 Bragaglia invia a Mussolini una lettera in cui denuncia lo scarso interesse dimostrato dal fascismo nei confronti della riforma del teatro ed auspica la creazione di un Teatro di Stato.  Bragagli considerava il fascismo il restauratore dei fondamenti spirituali d'una civiltà ascrivendogli il compito di valorizzare e tutelare la creatività connaturata della nazione, preservando i suoi talenti, maestranze e ingegni. Malgrado  questo ligio servilismo al regime, che lo porterà a mantenere sempre una sua autonomia di giudizio durante tutto il ventennio fascista, ammetterà poi il fallimento delle sue aspettative su una riforma teatrale fascista a causa della mancanza di qualsiasi indirizzo estetico  e per le resistenze nei confronti degli autori più giovani e audaci.